Horror

The Strain | Stagione 1

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Prima di parlare di “The Strain” sarebbe forse meglio disegnare un breve profilo di Guillermo Del Toro, operazione complessa visto che il geniale e visionario regista messicano è un ciccione e il suo profilo arriverebbe a misura la distanza chilometrica che separa lui dalla mia tastiera.
Cari fan di Del Toro, ora siete abbastanza offesi dal mio umorismo infantile da voler abbandonare la stanza? Buon per voi, perché quello che seguirà sarà ancora più doloroso.

La carriera da regista di Guillermo Del Toro viene inaugurata da qualche cortometraggio, una serie televisiva (“Hora marcada”) e “Cronos”, lungometraggio di produzione messicana che fa notare Del Toro ai fratelli Weinstein che gli affidano la regia di “Mimic”, film che lui disconosce anzitutto per le continue interferenze di Bob Weinstein che gli rompeva le palle sul set. “Mimic” è un buon punto di partenza per capire l’anima di Del Toro: è infatti un film diviso tra due registri, quello puramente fantastico (con gustose derive weird) e uno che possiamo definire nostalgico-sentimentale. Il risultato è un film dove convivono malamente Giancarlo Giannini che spara dei pipponi che mai nessuno e degli scarafaggi giganteschi che sembrano degli uomini in cappotto e vivono nella metropolitana di New York.

Da qui in poi la sua filmografia è come se fosse una continua lotta tra le forze di un cinema popolare, ben fatto ma sostanzialmente ruffiano e di un cinema tamarro, ignorante e prepotentemente rozzo. Dirige quindi due film solidi per far piangere le femmine (“La Spina del Diavolo” e “Il Labirinto del Fauno”) e due capolavori assoluti di cinema testosteronico (tutto ormoni e cervello quanto basta)  come “Hellboy” e l’irraggiungibile capolavoro che è “Blade II”.

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E poi la tragedia, perché “Il Labirinto del Fauno” raccontava una storia horror, ma anche la Storia con la S grossa, ma anche i sentimenti di piangere. Quando all’interno del cinema di genere unisci queste cose e le sottolinei per bene, va a finire che i critici dicono che il tuo è sì un film horror ma che in fondo racconta dell’Uomo e quindi non sei più un regista, sei un AUTORE. Ma si sa, i critici sono scemi e non capiscono che il genere non pregiudica un messaggio, semmai lo trasmette in maniera più precisa e profonda di un film di Nanni Moretti.

E quindi Del Toro si adegua al suo nuovo ruolo e ritorna idealmente ai tempi di “Mimic”, quando cercava trovare il giusto equilibrio tra le sue due anime. Sceglie di farlo con il fantasy, inizialmente grazie a “Hellboy: The Golden Army”, sequel sottotono perché ammorbidito e ammaestrato, e poi nella lunga pre-produzione de “Lo Hobbit” che finisce poi nelle mani di palta di Peter Jackson dopo un lungo mobbing che dovrebbe far vergognare i tipi della Warner.

Del Toro però si riprende in fretta e mette subito in cantiere “Pacific Rim”, film di mostroni contro robottoni che sancisce definitivamente l’impossibilità del regista di coniugare cazzeggio e impegno. E’ evidente come a Del Toro interessino solamente i combattimenti tra jaeger e kaiju, ma il suo status da autore lo obbliga a inserire una noiosissima traccia di sentimenti e filosofia spiccia: vorrebbe fare il “Neon Genesis Evangelion” degli americani ma non ha né la pazzia né la determinazione tutta giapponese di portare avanti un film filosofico con dei robot; al contempo però non riesce nemmeno a confezionare un film caciarone e ignorantissimo tutto pugni e ruggiti.

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Arrivati quindi a “The Strain” (tratto da un libro scritto dallo stesso Del Toro e da Chuck Hogan, entrambi sceneggiatori della serie) il discorso non sembra cambiare. Anche se il gap si fa meno evidente, la serie tv soffre dello stesso problema dell’intera filmografia del regista messicano: manca un dialogo reale tra la sua idea di horror e quella normalità narrativa (anche un poco ruffiana) che Del Toro innesta da sempre nella sua narrazione.

Dopo una partenza lenta che libera la narrazione solo al quarto episodio, “The Strain” si perde dietro la vita privata di Ephraim Goodweather e in una quantità eccessiva di buoni sentimenti declinati in ogni maniera possibile (dalla retorica del rapporto padre-figlio a quella dello scienziato pronto a sacrificarsi per la salvezza dell’umanità). Se avrete però la pazienza di sopportare tanta ricchioneria, sarete ricompensati in maniera adeguata dalle numerose declinazioni dell’horror usate da Hogan e Del Toro. I due passano in rassegna tutti i topoi del genere e li affrontano con la giusta dose di innovazione e tradizione, a partire proprio dai vampiri che si allontanano dal canone e – spogliati del loro fascino e dei canini – diventano delle creature forse meno raffinate ma altrettanto terrificanti. Così passando dai demoni, dalla mutazione dei corpi e dal mito del vampirismo, “The Strain” dà spessore anche visivo all’horror televisivo attraverso una fotografia i cui cromatismi riportano alla mente il cinema dell’inglese Hammer e un uso degli effetti speciali notevole per una produzione televisiva.

Sorprende invece che sia quasi privo di retorica il lungo flashback diluito in più episodi che racconta il passato di Abraham Setrakian e il suo primo contatto con il Maestro in un campo di concentramento nazista. Questo segmento si rivela essere la parte meglio riuscita della serie per come riesce ad annullare le distanze tra horror ed esigenze drammatiche per arrivare a quel livello di qualità che permette di togliere qualsiasi etichetta di genere, cosa che auguro accada anche nella seconda stagione della serie.

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